A Sua Santità Giovanni Paolo II

Beatissimo Padre,

vorremmo umilmente sottoporre alla vostra paterna attenzione questa riflessione relativa alla pena capitale.

Noi riteniamo che la pena di morte, inflitta a persone già assicurate alla giustizia, oltre che non rispondente al grado di civiltà  raggiunto dalle moderne democrazie, sia essenzialmente immorale perché contraria alla volontà di Dio.

La morte non è stata voluta nè, tantomeno, creata da Dio (Sp. 1,13) avendo Egli  creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn. 1,27), ossia, immortale (Sp. 2,23). 

La Scritturaafferma, infatti, che: “La morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo” (Sp. 2,24) e che: “Il pungiglione della morte è il peccato” (1 Cor. 15,56). Ci rivela, perciò, sia il vero autore della morte: “il diavolo”, sia l’arma da lui usata per uccidere le persone umane create da Dio: “il peccato”, sia il movente per cui le uccide: “l’invidia”.

Come la vita è stata creata da Dio e rappresenta la massima espressione del suo amore per le creature umane, cosi la morte è stata generata dal diavolo e manifesta tutto l’odio che questi nutre nei confronti del creatore e delle creature umane da Lui chiamate all’esistenza.

Vita e morte sono due realtà, tra loro inconciliabili e avverse, generate da due differenti sorgenti, identificabili, la prima  con il bene e la seconda con il male,due realtà diverse e contrapposte, sempre in lotta tra di loro, al punto che la morte è definita dalla  Scrittura : “la nemica di Dio” (1Cor. 15,26) e in quanto tale, Dio alla fine dei tempi, la distruggerà (Is. 25,8) ; (Ap. 21,4).

Pertanto, essendo la morte un potere che può esercitare solamente il diavolo (Eb. 2,14), è assurdo considerarla una realtà legalmente morale, uno strumento lecito per amministrare la giustizia penale, e, nel contempo, professare pacificamente la fede in colui che, invece, dichiara in assoluta opposizione alla morte:”Io sono la vita” (Gv. 14,6).

La morte,  per il fatto di essere, ontologicamente, legata al demonio, che l’ ha generata, resta indissolubilmente legata al male. La sua natura malefica, perciò, è immodificabile e niente al mondo può variare questo dato di fatto morale.

La morte sta al diavolo come il frutto  al suo albero, e noi  sappiamo con certezza  che un frutto non  può mai essere buono se l’albero che lo genera ha una natura velenosa (Mt. 12,33) ;  (Lc. 6,43).

Quandola  Scritturaafferma che : “La morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo” (Sp. 2,24), intende, appunto, avvertire i credenti  circa la sua provenienza e, perciò, a non lasciarsi mai ingannare da essa, assecondandola o peggio, utilizzandola  come strumento penale per far morire le persone umane già assicurate alla giustizia.

Da un confronto con il N.T. emerge, chiaramente, come essa sia contraria allo Spirito del Vangelo, il quale, invece, impone  ai credenti di abbandonare, decisamente, ogni forma di compromesso tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra Cristo e il demonio (2 Cor. 6,14-15), e di acquisire, secondo il pensiero di Gesù, un nuovo concetto della giustizia, più alto e nobile, un concetto di giustizia superiore a quello insegnato dall’A.T. (Mt 5,20), che considerava, appunto, moralmente legittima la pena di morte (Es. 21,23).

Se il N.T. attesta  che:” quando il peccato  è consumato produce la morte” (Gc. 1,15), lo fa per ricordarci la connessione sempre esistente tra la causa e il suo effetto, tra il peccato e la morte e che, perciò, per produrre deliberatamente la morte di una persona umana, è necessario prima consumare il peccato, cioè, compromettersi con esso, che ne è il pungiglione (1 Cor. 15,56). La morte, essendo “la nemica di Dio”, per configurarsi ha sempre bisogno di ricorrere al  veleno  prodotto dal peccato. Ecco perché, la resurrezione di Gesù, rappresenta la massima testimonianza di questa verità di fede: la morte su di Lui non ha potuto accampare alcun diritto, non ha avuto alcun potere,appunto, perché  Egli, in tutto il tempo della sua vita terrena non si è mai compromesso con il peccato. (Eb. 4,15).

Quindi chi, deliberatamente, opta  per la morte legalizzata, ne deve accettare, implicitamente, anche le condizioni che contestualmente, la rendono  possibile, ossia, il compromesso con il diavolo che, solo, ha il  potere per generarla (Eb. 2,14) e la consumazione del peccato, il quale con il suo veleno la rende tragicamente concreta (1Cor. 15,56 ; Rm. 5,12).

Perciò, ogni volta che la si favorisce o la si provoca, volontariamente, non solo  si va contro il volere di Dio, essendo Egli: ”l’autore della vita” (At. 3,15), ma si passa a  cooperare, attivamente,  con colui che l’ha generata e chela  Scritturaha etichettato “omicida fin da principio” (Gv. 8,44).

E’ questa la ragione per la quale Dio ha formulato il comando: “Non uccidere” (Es. 20,13) ; (Dt. 5,17) in termini negativi. Lo ha fatto al preciso scopo, di  vietare all’uomo, in forma  assoluta  e non relativa, l’uccisione volontaria della persona umana. Lo ha fatto per vietargli, a priori, ogni possibilità di modificare, scavalcare o raggirare il quinto comandamento.

Leggiamo, invece, al numero 2261 del N.C. della Chiesa Cattolica che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto Comandamento: << Non far morire l’ innocente e il giusto>> ( Es. 23,7). Quindi, secondo il N.C., con questo versetto,la Scrittura preciserebbe la categoria di persone a cui è indirizzata la proibizione del quinto comandamento, ossia, preciserebbe che Dio vieta di uccidere e, naturalmente, di comminare la pena di morte esclusivamente alle persone ritenute “innocenti” dalla legge umana, ma non a  quelle ritenute colpevoli.

Tale interpretazione, di fatto, provoca un trasferimento del divieto “assoluto” di uccidere, dalla proposizione:”Non uccidere” ( Es. 20,13), la quale vieta, sia l’uccisione delle persone innocenti che di quelle colpevoli, alla proposizione: “Non far morire l’innocente e il giusto” ( Es. 23,7), che, invece, in modo “assoluto”, vieta  solo l’uccisione delle persone innocenti, mentre implicitamente consente, come di fatto avviene, l’uccisione delle persone ritenute colpevoli dalla legge morale umana.

In realtà, la proposizione:”Non far morire l’innocente e il giusto” (Es. 23,7) non ha affatto lo scopo di precisare quali siano e quali non siano i soggetti morali a cui è diretta  la proibizione del quinto comandamento: “Non uccidere” ma, piuttosto, di evidenziare il corretto comportamento morale che devono assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale. E ciò si rileva, chiaramente, sia leggendo il passo, Es. 23,7, per intero: “Starai  lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole”  che leggendo  il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo” (Es. 23,6).

In pratica, il versetto:”Non far morire l’innocente e il giusto” (Es. 23,7), non ha la finalità di precisare a quali soggetti è indirizzato il quinto comandamento, ma di sottolineare che Dio vieta, categoricamente, ai giudici e ai  testimoni, di  ricorrere a parole false per deviare il corso della giustizia e provocare la condanna dell’innocente e l’assoluzione del colpevole.

Sul Sinai, infatti, per formulare il quinto comandamento, Dio non ha utilizzato la proposizione :”Non uccidere l’innocente” ma ha formulato la proposizione:”Non uccidere” (Es. 20,13), che è poi, la medesima utilizzata dagli Apostoli nel N.T.(Mt. 19,18 ; Mc. 10,19 ; Gc. 2,11). 

E Gesù, con il N.T. ha preso, decisamente, posizione contro la pena di morte (Mt. 5,21-22), legge vendicativa e crudele che, nel nome di una giustizia e di una religione senza misericordia, ha causato un infinito numero di vittime innocenti ( Mt. 12,7 ). A coloro che un giorno lo interrogarono per  conoscere, appunto, il suo pensiero, circa la liceità o meno di un’esecuzione capitale che essi erano intenzionati ad eseguire, esecuzione avallata, tra l’altro, dalla flagranza di reato e legalizzata dalla legge del suo tempo, egli rispose, ironicamente, che tale sentenza l’avrebbero potuta eseguire solo coloro che non avevano mai peccato, vale a dire: nessuno.La S. Scrittura, infatti, attesta chiaramente, che non esistono al mondo persone senza peccati (Qo. 7,20 ; 1Gv. 1,8-10). E i suoi interlocutori, resi da Lui coscienti, circa questa fondamentale verità morale, accolsero la sua lezione e, uno dopo l’altro, abbandonarono il  proposito omicida e andarono via (Gv. 8,3-11).

Egli, dunque, con la sua risposta chiarisce innanzitutto, che il problema della liceità o meno della pena di morte, prima ancora di essere un problema  di natura legale, politica o sociale è un problema di natura morale, quindi, per quanto autorevoli e valide possano essere le ragioni etiche addotte dal mondo, non possono mai prevalere su quelle morali insegnate e fissate da Cristo. Con le sue parole, Egli, implicitamente, pone in risalto il rapporto di  corresponsabilità umana e universale che, a causa sia del peccato originale che dei  peccati personali, intercorre fra tutte le creature umane, nessuna esclusa. Perciò, come per i suoi interlocutori, nessuna persona al mondo può presumere di essere da Lui autorizzato a  favorire, emettere o eseguire una sentenza capitale perché nessuna persona al mondo potrà mai possedere i  requisiti morali da lui richiesti (Gv.8,7).

La Chiesanei primi quattro secoli  aborriva la pena capitale (Concilio di Elvira, can.56; De idolatria cap.17; Minucio Felice-Octavius,5; Canoni di Ippolito II,16) e non solo perché essa stessa la subiva e la sperimentava, direttamente nella propria carne, ma perché la pena di morte era stata sanzionata ed eseguita su Gesù stesso, su Colui che rappresentava l’innocenza e la giustizia fatta carne .

Quell’esecuzione capitale, alla luce della fede, non poteva considerarsi alla stregua delle altre esecuzioni capitali, in cui la legge umana commette un errore giudiziario e sopprime una persona innocente. Quella particolare esecuzione rappresentava, e nel contempo decretava, il giudizio e la condanna morale della pena medesima. Gesù, non era solo un uomo, ma anche il Cristo, per cui,  in quell’occasione, come per tutte le problematiche umane, fino alla fine dei tempi, Egli rappresenterà sempre, per tutto il genere umano, il solo e unico metro di giudizio, con il quale confrontarsi e misurare ogni problema umano.

L’esecuzione capitale di Gesù dimostra l’assurdità della legge penale capitale. Essa che non è stata capace di risparmiare la vita all’unico uomo, innocente e giusto in assoluto, che abbia messo piede su questo mondo, come potrebbe, poi, nei nostri confronti, essere meno ingiusta e disumana, dal momento che la nostra innocenza è sempre espressa all’insegna della relatività? Insomma, se essa, come strumento penale è servito per trattare cosi Colui che rappresenta il legno verde dell’umanità, come tratterà noi che rappresentiamo i rami secchi del genere umano (Lc. 23,31)? Oltretutto, Gesù non si era limitato a vietare ai suoi discepoli di “non uccidere”, ma aveva comandato ad essi di resuscitare i morti (Mt. 10,8).

E poi, come non cogliere, dietro l’evolversi degli  eventi che portarono alla sua condanna a morte,  l’invisibile regia del demonio, il quale, uscito sconfitto dallo scontro avuto con Lui nel deserto, non rinunciò mai al proposito di chiudergli la bocca e,”nel tempo fissato” (Lc. 4,12),cioè, appena gli si sarebbe presentata l’occasione, come di fatto avvenne, egli tornò nuovamente all’attacco e  questa volta riuscì nel suo intento omicida.

Per queste e altre ragioni, quindi,la  Chiesaaborriva la pena di morte. Ancora nel 382, essendo papa Damaso, i canoni del sinodo romano ai vescovi della Gallia (PL,13,1181ss-al cap. 5, n.13) dichiarano che non possono essere immuni da peccato i funzionari civili che “hanno emesso condanne a morte”.

Perciò, solo successivamente, in seguito alla sua integrazione con l’Impero Romano,la Chiesa,  cominciò a considerarla favorevolmente fino a giungere al suo esplicito riconoscimento dottrinale che avvenne nel 1208 con papa Innocenzo III, il quale dichiarò contro i valdesi che: “Riguardo al potere civile, affermiamo che si può esercitare il diritto penale capitale”.

Tuttavia, l’atteggiamento critico che, in alcune occasioni particolari, di quando in quando,la Chiesa, pubblicamente, ha assunto nei confronti della pena di morte, lo si potrebbe interpretare come una volontà a voler nuovamente ritornare alla dottrina dei primi quattro secoli, in cui essa proibiva la pena di morte e riteneva la vita umana, sia dell’innocente che del colpevole, assolutamente, sacra e inviolabile.

La Chiesa, madre e maestra, è stata posta da Cristo come guida, insostituibile, dell’umanità, per cui, essa non può lasciarsi superare dalla società laica, come si è già purtroppo verificato in qualche importante appuntamento con la storia. E’ necessario ritornare alla dottrina delle origini poiché: “la comunità primitiva ha valore esemplare per ogni periodo di rinnovamento e di crescita nella vita ecclesiale” (Ev. e Min. n. 43).

In forza del battesimo e dell’appartenenza alla Chiesa affidiamo a Voi Santità quest’iniziativa e la poniamo sotto la Vostra speciale protezione.

Chiediamo, filialmente, che la Chiesasi adoperi per la  proscrizione morale della pena di morte, la elimini dal Nuovo Catechismo e la bandisca definitivamente dalla dottrina cristiana, affinché nessun giudice, legislatore, responsabile di governo, uomo politico o religioso possa più legittimarla e trovare giustificazione per la propria coscienza.

                                                                                                  Filialmente ringrazio

7 ottobre 2001                                                                       diac. Giuseppe Cavallaro

 

 

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