Se consideriamo, da un lato, il “rispetto” per la dignità della persona e, dall’altro, il “valore” che va riconosciuto alla vita umana ci rendiamo subito conto che il “rispetto” è consequenziale al “valore”, infatti, quanto più aumenta il valore della vita, tanto più cresce il rispetto per la persona umana e, quanto più diminuisce il valore della vita, tanto più decresce il rispetto per la persona umana. Ecco perché, le persone che danno valore alla vita umana hanno anche rispetto per la propria e per l’altrui dignità e assumono un comportamento consono alla loro concezione di persone rispettose: protendono alla stima, alla solidarietà, alla tolleranza ecc.. Anche le persone che danno poco valore alla vita umana e non hanno un gran rispetto per la loro e l’altrui dignità umana assumono un comportamento in linea con la loro concezione di persone irrispettose: sono incline alla violenza, al compromesso, alla corruzione, ecc.. Sicché, ciò che prevalentemente spinge ad un comportamento violento, ingiusto, egoista, prepotente, ipocrita ecc. di una parte, e forse la più numerosa, dell’umanità è la disistima per il valore della vita che non fa crescere il rispetto per la dignità umana. Ciò succede perché il mondo ha sempre adottato una concezione della vita umana di valore relativo, soggettivo, limitato, che giunge perfino ad uccidere le persone ricorrendo ad una legge fatta dalle persone. Perciò, la concezione della vita umana di valore relativo e la liceità della pena di morte si identificano. Ecco perché alcuni Paesi che, sotto l’influsso della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, hanno eliminato dai loro ordinamenti giuridici la pena di morte diretta, benché possono sempre ripristinarla, non possono però eliminare la pena di morte indiretta che la concezione della vita umana di valore relativo riconosce ai potenti del mondo, i quali con il loro arbitrio continuano a comminarla a milioni di persone, allorquando per lo scarso rispetto che hanno per la dignità umana a motivo della disistima per il valore della vita, non riconoscono ad essi i diritti umani fondamentali che sono ordinati al bene e alla longevità della vita, quali: il cibo, l’acqua, le cure mediche, il lavoro, la casa ecc.: come il riconoscimento dei diritti umani fondamentali è fattore di vita per le persone, il non riconoscimento è causa di morte. La concezione della vita umana di valore relativo perciò è, per sua natura, inidonea ad eliminare le discriminazioni, le disuguaglianze sociali e le violazioni dei diritti umani fondamentali perché essa è portata, di fatto, a subordinare le persone al profitto economico e a tutte le altre realtà di potere: “la metà della popolazione più povera, circa 3,5 miliardi di persone ha un reddito annuale pari a quello degli 85 uomini più ricchi del pianeta” (Rapporto Oxfam del 2014). Per rendere, quindi, il mondo più umano e giusto, è necessario accantonare culturalmente e socialmente la concezione della vita umana di valore relativo e sostituirla con la concezione di valore assoluto che, al contrario della prima, subordina, in linea di principio, il profitto economico e tutte le altre realtà di potere alla persona umana. Tuttavia, ciò potrà aver luogo solo se, a motivo del suo compito di formare universalmente le coscienze umane, la Chiesa per prima ne dà l’esempio rinunciando alla sua concezione morale della vita umana di valore relativo, dal momento che essa “non esclude … il ricorso alla pena di morte” (Nuovo Catechismo art. 2267) per cui, alla stregua del mondo, sminuisce il valore della vita e riduce il rispetto per la dignità umana. Anche se, nella storia recente, alcuni papi si sono espressi per l’abolizione della pena capitale, ciò non ha comportato automaticamente la rinuncia del principio di liceità morale della pena di morte da parte della Chiesa e quando essa afferma nelle Encicliche, nel Catechismo e negli altri documenti di essere contraria alla pena capitale si riferisce sempre alle persone innocenti. Infatti, essa reputa che: “… il comandamento “non uccidere” ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae n 57), per contro, ha valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole, e ciò, nonostante che nella parabola evangelica del grano e della zizzania dove “Il campo è il mondo. Il grano sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno” (Mt 13, 38) si precisa che: “I servi andarono dal padrone e gli dissero : Padrone, non hai seminato del buon grano nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania ? Egli rispose loro : Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero : Vuoi che andiamo ad estirparla? No, rispose, perché non succeda che estirpandola, con essa sradichiate anche il grano” (Mt 13,27-29): Gesù, quindi, vieta al mondo, e ancor più, alla sua Chiesa, di sradicare la zizzania umana ricorrendo alla liceità della pena di morte comminata alle persone giudicate colpevoli dalla legge umana e questo, per evitare proprio l’uccisione di persone innocenti. Se da una prospettiva etica, culturale e sociale il mondo spontaneamente ha adottato la pena di morte e la concezione della vita umana di valore relativo, non si può dire lo stesso per la Chiesa che, istruita dalla “Parola di Dio” e dalla “Tradizione Apostolica”, fin dalla sua nascita ha riconosciuto, come norma oggettiva della moralità, la concezione della vita umana di valore assoluto e aborrito la pena di morte: norma morale che Cristo stesso ha sancito con la sua “Incarnazione”, infatti, Gesù, assumendo la natura umana, nel seno della Vergine Maria, l’ha rinnovata, valorizzata e resa partecipe della sua vita divina. Perciò, la Chiesa, conformandosi al mondo e facendo sua, verso la fine del quarto secolo, la liceità della pena di morte che attribuisce alla vita umana valore relativo, ha rinunciato a formare il mondo secondo la norma oggettiva della moralità e ha interrotto il cammino di rinnovamento morale e culturale che avrebbe dovuto attuare per formare le coscienze ad una più alta stima del valore della vita e ad un maggiore rispetto della dignità umana. Quindi, se: “E’ in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi” (Gaudium et spes 15 d), lo è, perché la Chiesa, riportando il mondo alla concezione precristiana della vita umana di valore relativo, ha omesso di suscitare uomini più saggi che, valorizzando la vita, avrebbero fatto prevalere il rispetto sul disprezzo e, certamente, anteposto la persona umana all’economia, alla politica, alla scienza, alle leggi e a tutte le altre realtà di potere, non a caso, la storia della salvezza insegna che la rovina politica e sociale è sempre causata dalla decadenza morale. La Chiesa, perciò, non può limitarsi ad allertare il mondo ma, se davvero lo vuole salvare suscitando uomini saggi dediti alla verità, alla giustizia e alla pace, deve coraggiosamente e necessariamente ritornare all’insegnamento originario e rinunciare in modo assoluto alla liceità morale e sociale della pena di morte.
11 Febbraio 2017 diacono Giuseppe Cavallaro